Quando anche la malattia diventa abitudine nemmeno più il miasma purulento del catetere riesce a scuotermi.
E nemmeno la fogna incrostata di sterco, e nemmeno l'aria greve e flautolenta.
Ricordati le pesche e le pere e i biscotti. Mulino Bianco, mi raccomando: non quella robaccia del tuodì.
Guardo la busta di plastica e ripasso. Si, c'è tutto.
Saluto senza enfasi l'addetto alla piccola reception. Quello manco risponde.
Comincio l'apnea e mi dirigo verso il piccolo giardino.
Leggo a destra intramoenia e a sinistra archivio.
Poi privato e poi ancora ritiro cartelle.
Il corridoio lungo e spoglio pare non avere fine.
Intra moenia...
Chissà perchè ho già in mente il traffico del ritorno.
Ma Roma non si svuota mai?
La luce della porta mi riporta al pratico.
Gatorade al limone e ferrarelle.
Ottanta centesimi l'uno, quaranta l'altra. Spiccioli pronti preparati prima di scendere dalla macchina.
Rallento.
Di fronte a me, oltre la vetrata, tra i due piloni di legno chiaro, una panchina.
Un uomo accarezza i capelli di una donna.
Fa dell'indice un bigodino e poi li lascia cadere dietro l'orecchio.
Le parla lento guardandola mentre lei mantiene la testa dritta.
Assorta? Triste? Incazzata?
Lui le si fa ancora più vicino. Le cinge le spalle e continua a parlare.
Svolto all'angolo. I distributori sono liberi.
In quello dell'acqua trovo già inseriti i quaranta centesimi.
Spingo il bottone della ferrarelle, ma non risponde.
Allora prendo il gatorade che scende con un bel tonfo nella cassettina.
Poggio un ginocchio in terra e penso male.
Mio padre è sdraiato sul letto. Noto insoliti pantaloncini corti azzurri al posto della tuta.
E' stanco perchè ha fatto fisioterapia per due ore, mi dice.
Però, mi vuol far vedere come sta in piedi.
Con una certa difficoltà si mette seduto. Poi sta qualche secondo imbambolato come se gli girasse la testa.
Gli gira la testa.
Guardo con disprezzo la pancia dura e informe. I muscoli del capitano sono flaccide borse che galleggiano sotto le braccia.
Prova a tirarsi su appongiandosi a me. Infilo il braccio sotto al suo e lo stringo forte.
I passi sono piccoli e complicati. Come quelli di chi ha dimenticato come si cammina.
Però la volontà c'è.
Circumnavighiamo la finestra, tocchiamo la porta e si affaccia: fuori c'è vita.
Ma quando me lo porti mì nipote?
La stanchezza prende il sopravvento ma domani ci rifaremo.
Guardo l'orologio.
A domani, dico. Solito scambio veloce di occhiate. Parlo sempre troppo poco.
Scendo i due piani e mi avvio all'uscita.
Ci ripenso. Corridoio e giardino.
Lui l'abbraccia ancora.
Ma non come chi ha paura che voli via.
Come uno che nasconde, come uno che si scusa.
Come chi rassicura, ma più se stesso.
Il braccio le cinge le spalle e lei guarda dritto davanti a se.
Come uno che protegge, ecco, ora mi viene in mente.
Se stesso, la sua vita, gli errori, la consapevolezza, la casa, la famiglia: lei c'è.
Sempre e viene prima di tutto.