Sto cadendo a pezzi: basterebbe soltanto che te ne andassi sbattendo la porta.
...dev'esserci un'isola più a sud, un altro mare che nuota in altro blu...
lunedì 31 maggio 2010
sabato 29 maggio 2010
giovedì 27 maggio 2010
Non esiste
L'amicizia passa attraverso il dolore che provoca l'amore negato.
Da una parte o dall'altra.
Non esiste amicizia tra un uomo ed una donna.
martedì 25 maggio 2010
La sostanza
lunedì 24 maggio 2010
Chiuso
Chiuso per stress,
chiuso per stanchezza,
chiuso per sonno,
chiuso per fame.
Chiuso per ferie,
chiuso per malattia,
chiuso perchè so cazzi mia.
Chiuso per mancanza di fondi,
chiuso per mancanza di pazienza,
chiuso per mancanza. Punto.
Chiuso per oltrepassato limite.
Chiuso perchè non sono una banca,
chiuso, chiuso, chiuso.
Come cristo comanda.
chiuso per stanchezza,
chiuso per sonno,
chiuso per fame.
Chiuso per ferie,
chiuso per malattia,
chiuso perchè so cazzi mia.
Chiuso per mancanza di fondi,
chiuso per mancanza di pazienza,
chiuso per mancanza. Punto.
Chiuso per oltrepassato limite.
Chiuso perchè non sono una banca,
chiuso, chiuso, chiuso.
Come cristo comanda.
mercoledì 19 maggio 2010
Come stai?
Buongiorno, come va?
Bene grazie e lei? D'un fiato.
E uno.
Buongiorno, come sta?
Bene grazie e lei? D'un fiato.
E due.
Ciao, come stai?
Bene grazie te? D'un fiato.
E tre.
Ciao, allora che dici? Come va?
E quattro.
No aspetta, una domanda: ma a te che cazzo te ne frega di come mi va?
O meglio, solo un secondo che mi spiego:
a te, te frega qualcosa di come sto?
L'amica che tanto amica non è rimane di sale.
Me sa che non stai bene, farfuglia, logicamente in difficoltà.
Anche se non è colpa sua.
Lo vuoi un caffè?
Salve Massimiliano, come sta?
E cinque.
Signora, salve: ma perchè non si fa i cazzi suoi?
Sto male, embè? Non guarisco, embè?
Nun me passa e allora? Ma perchè a lei je ne frega qualcosa de come sto?
Me sento male, nun dormo, me rode er culo da mattina a sera: ecco come sto.
La signora strizza gli occhi e pensa di vivere un sogno.
Oppure voleva- come tutti- solamente salutare?
Allora si dice semplicemente buongiorno o buonasera, basta guardare un attimo prima se c'è il sole o no.
Bene grazie e lei? D'un fiato.
E uno.
Buongiorno, come sta?
Bene grazie e lei? D'un fiato.
E due.
Ciao, come stai?
Bene grazie te? D'un fiato.
E tre.
Ciao, allora che dici? Come va?
E quattro.
No aspetta, una domanda: ma a te che cazzo te ne frega di come mi va?
O meglio, solo un secondo che mi spiego:
a te, te frega qualcosa di come sto?
L'amica che tanto amica non è rimane di sale.
Me sa che non stai bene, farfuglia, logicamente in difficoltà.
Anche se non è colpa sua.
Lo vuoi un caffè?
Salve Massimiliano, come sta?
E cinque.
Signora, salve: ma perchè non si fa i cazzi suoi?
Sto male, embè? Non guarisco, embè?
Nun me passa e allora? Ma perchè a lei je ne frega qualcosa de come sto?
Me sento male, nun dormo, me rode er culo da mattina a sera: ecco come sto.
La signora strizza gli occhi e pensa di vivere un sogno.
Oppure voleva- come tutti- solamente salutare?
Allora si dice semplicemente buongiorno o buonasera, basta guardare un attimo prima se c'è il sole o no.
domenica 16 maggio 2010
mercoledì 12 maggio 2010
Ma se lo annacqui...
caffè, caffè, caffè, serve del caffè
per pensare
per stare svegli
per non pensare a te.
O per pensare meglio
cercando di stare meglio
perchè se non sbaglio
mi fa stare male
pensare
che mi fai ancora
stare male.
Serve del caffè
perchè se mi sveglio alle quattro
e non connetto
divento matto
matto più o meno come non vederti
o vederti meno
o per niente
adesso che sei presente
più di sempre
Parole, parole, parole
servono parole per cercare
di spiegare
ma c'è poco da capire.
E allora affanculo il caffè
smetto di riempirmi di domande
e corro da te.
per pensare
per stare svegli
per non pensare a te.
O per pensare meglio
cercando di stare meglio
perchè se non sbaglio
mi fa stare male
pensare
che mi fai ancora
stare male.
Serve del caffè
perchè se mi sveglio alle quattro
e non connetto
divento matto
matto più o meno come non vederti
o vederti meno
o per niente
adesso che sei presente
più di sempre
Parole, parole, parole
servono parole per cercare
di spiegare
ma c'è poco da capire.
E allora affanculo il caffè
smetto di riempirmi di domande
e corro da te.
martedì 11 maggio 2010
Risotto
Chiudendo rapidamente la conversazione hai detto ci sentiamo con più calma.
Ho pensato a quando sarebbe stato, tra un millennio o due. Ho pensato alle sporadiche letterine, alle parche parole.
Poi, dal vento e dalle nuvole basse, dal grigio e dal nero, sono comparsi gli occhi.
Non disturbi, affatto.
Cerchiati di rosso, come chi deve piangere ma non può.
Come chi è solo ma non può ammetterlo.
Suona il telefono.
Mancano dieci minuti alle nove.
Ho cenato senza gusto. La borsa è sul letto, cinquanta mila lire nel portafogli.
E' per te, mi fa mia sorella.
Avvicino la cornetta all'orecchio paventando tre o quattro ipotesi.
Sei tu.
Imposto una voce arrabbiata.
Dolcemente invece mi dici che hai saputo che domani parto.
Per la verità è stasera. La tradotta di mezzanotte.
Rimaniamo sospesi in silenzio. Una promessa di chiarimento, un arrivederci a fra un mese.
Destinazione permettendo.
Ci metto del tempo prima di poterlo fare: una telefonata, una chiave, un problema, una battuta col pilota, un'altra telefonata.
Finalmente giro il bancone e ti abbraccio.
Dopo venti anni o venti anni dopo.
Non c'è più madame rochas ed il mare è solo una massa indistinta dietro cubi di bianco cemento.
Ho paura a stringerti troppo in balia dei flutti così come mi appari.
Allora?
Sospiri.
Dobbiamo tranciare questa difficoltà iniziale di comunicazione.
Come se servisse un altro abbraccio. Come se non servisse parlare.
Ci pensi tu a rompere l'equilibrio degli sguardi sopra il silenzio.
Ti lanci in spiegazioni tecniche percorrendo l'iter della scoperta.
Ci deve essere un motivo dici.
Che fai, ti ho ammutolito?
Entro in macchina, seduto dietro, nella ipsilon dieci rossa di Carmine.
Accanto a lui c'è Stefano.
Dal finestrino abbassato dieci centimetri aria di neve.
Nella vena della tempia pulsa la speranza.
Quando torni ne parliamo. Un mese vola via.
Il binario, i saluti, gli zaini, le lacrime, una canzone conosciuta.
Non riesco a tirare fuori parole di significato.
Ci sono migliaia di fosse di non conoscenza ad ogni passo.
Le difese immunitarie, il cuore che si perde il cervello assai più veloce, le colpe che ti dai, la delusione che disegni con tutte le parole che dici o sussurri soltanto.
Ti guardo le mani che non riconosco, i piedi che non ricordo.
Dentro l'incapacità di darti ragione.
Seduto, la schiena dritta, la borsa sulle ginocchia, realizzo: il tempo c'era, dovevo passare.
Il tempo c'era, dovevo abbracciarti, una volta per tutte.
-Adesso vado via che ho fame.
-Che ti prepari?
-Risotto, io adoro il risotto: risotto parmigiano e stracchino.
Però prima ti abbraccio che ne ho voglia.
Ho pensato a quando sarebbe stato, tra un millennio o due. Ho pensato alle sporadiche letterine, alle parche parole.
Poi, dal vento e dalle nuvole basse, dal grigio e dal nero, sono comparsi gli occhi.
Non disturbi, affatto.
Cerchiati di rosso, come chi deve piangere ma non può.
Come chi è solo ma non può ammetterlo.
Suona il telefono.
Mancano dieci minuti alle nove.
Ho cenato senza gusto. La borsa è sul letto, cinquanta mila lire nel portafogli.
E' per te, mi fa mia sorella.
Avvicino la cornetta all'orecchio paventando tre o quattro ipotesi.
Sei tu.
Imposto una voce arrabbiata.
Dolcemente invece mi dici che hai saputo che domani parto.
Per la verità è stasera. La tradotta di mezzanotte.
Rimaniamo sospesi in silenzio. Una promessa di chiarimento, un arrivederci a fra un mese.
Destinazione permettendo.
Ci metto del tempo prima di poterlo fare: una telefonata, una chiave, un problema, una battuta col pilota, un'altra telefonata.
Finalmente giro il bancone e ti abbraccio.
Dopo venti anni o venti anni dopo.
Non c'è più madame rochas ed il mare è solo una massa indistinta dietro cubi di bianco cemento.
Ho paura a stringerti troppo in balia dei flutti così come mi appari.
Allora?
Sospiri.
Dobbiamo tranciare questa difficoltà iniziale di comunicazione.
Come se servisse un altro abbraccio. Come se non servisse parlare.
Ci pensi tu a rompere l'equilibrio degli sguardi sopra il silenzio.
Ti lanci in spiegazioni tecniche percorrendo l'iter della scoperta.
Ci deve essere un motivo dici.
Che fai, ti ho ammutolito?
Entro in macchina, seduto dietro, nella ipsilon dieci rossa di Carmine.
Accanto a lui c'è Stefano.
Dal finestrino abbassato dieci centimetri aria di neve.
Nella vena della tempia pulsa la speranza.
Quando torni ne parliamo. Un mese vola via.
Il binario, i saluti, gli zaini, le lacrime, una canzone conosciuta.
Non riesco a tirare fuori parole di significato.
Ci sono migliaia di fosse di non conoscenza ad ogni passo.
Le difese immunitarie, il cuore che si perde il cervello assai più veloce, le colpe che ti dai, la delusione che disegni con tutte le parole che dici o sussurri soltanto.
Ti guardo le mani che non riconosco, i piedi che non ricordo.
Dentro l'incapacità di darti ragione.
Seduto, la schiena dritta, la borsa sulle ginocchia, realizzo: il tempo c'era, dovevo passare.
Il tempo c'era, dovevo abbracciarti, una volta per tutte.
-Adesso vado via che ho fame.
-Che ti prepari?
-Risotto, io adoro il risotto: risotto parmigiano e stracchino.
Però prima ti abbraccio che ne ho voglia.
domenica 9 maggio 2010
Non farmi male
Mi hai detto accompagnami a fare la spesa.
Ho fatto si con la testa.
Muti, io dietro come un segugio.
Rapidi volteggi tra scaffali imbanditi: le uova, la scadenza, il latte, la scadenza, il prosciutto, la scadenza.
Perchè non lo prendi fresco?
Troppa fila.
Si, ma è più buono.
Non hai risposto.
I biscotti, quelli no che non si sciolgono nel latte.
Intanto mi carezzavo i capelli io.
Ti guardavo il culo ogni tanto.
Avevi una certa dimestichezza interessata, come se ti piacesse leggere le informazioni sul retro delle confezioni.
Ma non badavi ai prezzi.
Guarda che il tonno è in offerta.
Si, ma questo è più tenero.
Parti invertite.
Senza volerlo ho poggiato la mano sulla tua: cercavamo la stessa marmellata di more sullo stesso scaffale nello stesso momento.
E' stato un brivido.
Allora ho preso il carrello e camminato verso il banco frigo: ancora freddo.
Sei arrivato e mentre afferravo il cartone mi hai sfiorato la mano: quello della centrale è più buono.
Ho arrotolato di nuovo i capelli tra le mani.
Alle casse c'era coda. Hai scelto quella che a me sembrava più lunga.
Hai preso il telefono e senza degnarmi cominciato a scrivere.
Io vedevo solo la lucina rossa lampeggiare.
Caruccio che sei, ti ho detto infastidita.
Hai sorriso.
Quel malinconico tenero dolce bastardo modo di sorridere che hai.
La cassiera era lenta, ma carina.
Ho avuto l'impressione che trattenesse la mano nel restituirti la carta.
Aveva lunghi capelli ricci legati in una treccia ampia.
Ho pensato alle doppie punte.
Ho riempito le buste in maniera ordinata come piace a me.
Mi hai guardata come a dire che non c'era bisogno.
Oltre la porta scorrevole il vento di tramontava scuoteva la fila dei platani.
Che fai dopo?
Niente, ho detto insicura.
Allora accompagnami sù, poso le buste e scendo che devo ancora finire.
Non ho capito cosa ma t'ho seguito.
In ascensore, sopra i tasti, sopra la scritta del pronto intervento, un deodorante d'ambiente.
Hai poggiato la spesa per terra e premuto il cinque. Io mi sono schiacciata contro la lucida parete opposta.
Mentre il motore saliva ti sei avvicinato valicando subito il confine di sicurezza: la mano mi ha pettinato i capelli dietro la nuca e accolto il collo.
Ho aperto la bocca e chiuso gli occhi.
Mi hai baciato per venti secondi finchè l'ascensore s'assestava al piano.
La tua lingua sapeva di buono. Ma non di dentrificio. Come se avessi mangiato una merendina.
Io avevo appena finito l'ultima liquirizia.
Quando le porte si sono aperte hai fatto la seconda cosa che non mi aspettavo: spinto terra e baciato ancora.
Ti ho morso le labbra, stretto forte, tirato a me.
Al pian terreno hai pigiato di nuovo i tasti, a casaccio credo.
Messo l'altra mano sotto la camicia, dietro la schiena, e poi sotto, un centimetro dal proibito.
Un millimetro dall'infinito.
Ti baciavo lenta.
Ho pensato non fermarti, ma l'ascensore andava implacabile.
Mi hai guardato, sorriso, poi di nuovo guardato.
Ed io ferma.
Non farmi male, ho pensato.
Ho fatto si con la testa.
Muti, io dietro come un segugio.
Rapidi volteggi tra scaffali imbanditi: le uova, la scadenza, il latte, la scadenza, il prosciutto, la scadenza.
Perchè non lo prendi fresco?
Troppa fila.
Si, ma è più buono.
Non hai risposto.
I biscotti, quelli no che non si sciolgono nel latte.
Intanto mi carezzavo i capelli io.
Ti guardavo il culo ogni tanto.
Avevi una certa dimestichezza interessata, come se ti piacesse leggere le informazioni sul retro delle confezioni.
Ma non badavi ai prezzi.
Guarda che il tonno è in offerta.
Si, ma questo è più tenero.
Parti invertite.
Senza volerlo ho poggiato la mano sulla tua: cercavamo la stessa marmellata di more sullo stesso scaffale nello stesso momento.
E' stato un brivido.
Allora ho preso il carrello e camminato verso il banco frigo: ancora freddo.
Sei arrivato e mentre afferravo il cartone mi hai sfiorato la mano: quello della centrale è più buono.
Ho arrotolato di nuovo i capelli tra le mani.
Alle casse c'era coda. Hai scelto quella che a me sembrava più lunga.
Hai preso il telefono e senza degnarmi cominciato a scrivere.
Io vedevo solo la lucina rossa lampeggiare.
Caruccio che sei, ti ho detto infastidita.
Hai sorriso.
Quel malinconico tenero dolce bastardo modo di sorridere che hai.
La cassiera era lenta, ma carina.
Ho avuto l'impressione che trattenesse la mano nel restituirti la carta.
Aveva lunghi capelli ricci legati in una treccia ampia.
Ho pensato alle doppie punte.
Ho riempito le buste in maniera ordinata come piace a me.
Mi hai guardata come a dire che non c'era bisogno.
Oltre la porta scorrevole il vento di tramontava scuoteva la fila dei platani.
Che fai dopo?
Niente, ho detto insicura.
Allora accompagnami sù, poso le buste e scendo che devo ancora finire.
Non ho capito cosa ma t'ho seguito.
In ascensore, sopra i tasti, sopra la scritta del pronto intervento, un deodorante d'ambiente.
Hai poggiato la spesa per terra e premuto il cinque. Io mi sono schiacciata contro la lucida parete opposta.
Mentre il motore saliva ti sei avvicinato valicando subito il confine di sicurezza: la mano mi ha pettinato i capelli dietro la nuca e accolto il collo.
Ho aperto la bocca e chiuso gli occhi.
Mi hai baciato per venti secondi finchè l'ascensore s'assestava al piano.
La tua lingua sapeva di buono. Ma non di dentrificio. Come se avessi mangiato una merendina.
Io avevo appena finito l'ultima liquirizia.
Quando le porte si sono aperte hai fatto la seconda cosa che non mi aspettavo: spinto terra e baciato ancora.
Ti ho morso le labbra, stretto forte, tirato a me.
Al pian terreno hai pigiato di nuovo i tasti, a casaccio credo.
Messo l'altra mano sotto la camicia, dietro la schiena, e poi sotto, un centimetro dal proibito.
Un millimetro dall'infinito.
Ti baciavo lenta.
Ho pensato non fermarti, ma l'ascensore andava implacabile.
Mi hai guardato, sorriso, poi di nuovo guardato.
Ed io ferma.
Non farmi male, ho pensato.
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